da Redazione | Set 21, 2024 | Diritto civile
Il contratto di rent to buy rappresenta una formula innovativa introdotta nell’ordinamento giuridico italiano con il D.L. 133/2014, convertito con modifiche dalla L. 164/2014. Questo strumento contrattuale combina aspetti della locazione e della compravendita, offrendo una soluzione flessibile sia per chi desidera acquistare un immobile, ma non dispone subito delle risorse economiche necessarie, sia per chi intende vendere, ma trova difficoltà a trovare immediati acquirenti.
L’obiettivo di questo breve articolo è quello di illustrare i principi giuridici che regolano il contratto di rent to buy e analizzarne la funzione economica, evidenziando i vantaggi e gli svantaggi che tale formula comporta per le parti coinvolte.
Nonostante la sua introduzione ormai risalga al 2014, il rent to buy ha registrato un utilizzo limitato, a causa di alcuni ostacoli pratici e di una scarsa diffusione di informazioni riguardo alla sua applicabilità. Tuttavia, riteniamo che questa tipologia contrattuale abbia un notevole potenziale, soprattutto in un contesto economico caratterizzato dalla difficoltà di accesso al credito immobiliare e dall’incertezza finanziaria. Con una più ampia conoscenza e una maggiore attenzione da parte di venditori e acquirenti, il rent to buy potrebbe diventare un’opzione negoziale da sperimentare con sempre maggiore frequenza, specie in particolari congiunture del mercato immobiliare.
Disciplina del rent to buy
Il rent to buy è disciplinato dall’articolo 23 del Decreto Legge 12 settembre 2014, n. 133 (convertito in legge dalla L. 164/2014), noto come “Decreto Sblocca Italia”. Tale norma ha introdotto la possibilità di stipulare contratti di locazione finalizzati alla successiva alienazione di immobili, che, in sostanza, permettono di godere immediatamente di un immobile con la facoltà di acquistarlo entro un termine convenuto. Il contratto in esame non deve essere confuso con un semplice accordo di locazione con opzione di acquisto, poiché la struttura del rent to buy implica la trascrizione nei registri immobiliari ai sensi dell’art. 2645-bis c.c.
Tale trascrizione offre un’importante tutela al conduttore, che può così essere garantito contro eventuali azioni di pignoramento o ipoteca che potrebbero gravare sull’immobile dopo la stipula del contratto.
La legge prevede che il contratto di rent to buy debba essere redatto in forma scritta a pena di nullità e che la trascrizione nei registri immobiliari abbia effetti per un periodo massimo di dieci anni. Durante questo lasso di tempo, il conduttore ha la possibilità di esercitare il diritto di acquisto dell’immobile, imputando al prezzo finale una parte dei canoni versati.
Nel caso in cui non si pervenga alla vendita, il contratto si risolve, con il conseguente obbligo del concedente di restituire le somme versate come acconto sul prezzo, mentre la parte dei canoni destinata al godimento dell’immobile rimane acquisita dal concedente. Dal punto di vista fiscale, i canoni percepiti dal locatore sono trattati come redditi da locazione fino al momento del trasferimento della proprietà, mentre le somme imputate al prezzo di vendita sono soggette alle regole ordinarie in materia di cessione di immobili. Questa regolamentazione si propone di superare alcune problematiche tipiche dei contratti di locazione con opzione, garantendo un sistema più stabile e sicuro per entrambe le parti.
Vantaggi e svantaggi del rent to buy
Il rent to buy offre una serie di vantaggi sia per il proprietario che per il conduttore, ma non va esente da svantaggi, che potrebbero incidere sull’effettiva convenienza dell’operazione complessiva.
Per il proprietario/venditore, il primo vantaggio risiede nella possibilità di trovare un numero maggiore di potenziali acquirenti, specialmente in contesti di mercato difficili, dove molte persone non riescono ad accedere immediatamente al credito per l’acquisto di un immobile. Il venditore, inoltre, mantiene la proprietà dell’immobile fino alla conclusione dell’operazione, e durante il periodo di godimento riceve un canone che, essendo più elevato rispetto a una locazione tradizionale, gli permette di compensare i costi di gestione dell’immobile.
Tuttavia, tra gli svantaggi, vi è il rischio che il conduttore, alla fine del periodo stabilito, decida di non acquistare l’immobile, lasciando il proprietario nella posizione di dover cercare un nuovo acquirente e di dover restituire parte dei canoni (nella misura imputata alla vendita).
Dal punto di vista del conduttore/acquirente, il rent to buy offre il grande vantaggio di poter entrare subito in possesso dell’immobile, senza dover affrontare immediatamente le difficoltà legate all’ottenimento di un mutuo o alla disponibilità dell’intero prezzo di acquisto. Questo consente al conduttore di pianificare con maggiore tranquillità l’acquisto dell’immobile, accumulando nel frattempo un capitale che verrà imputato al prezzo finale.
Un ulteriore vantaggio per il conduttore è rappresentato dalla tutela giuridica che la trascrizione del contratto nei registri immobiliari gli garantisce, proteggendolo da eventuali azioni di terzi sul bene. Tuttavia, vi sono anche svantaggi: il principale è rappresentato dal fatto che una parte del canone, quella imputata al godimento dell’immobile, viene “persa” come in un normale affitto, nel caso in cui alla fine del contratto il conduttore decidesse di non acquistare. Tuttavia, la presenza di tassi di interesse elevati nel mercato monetario potrebbe giustificare comunque la convenienza economica del rent to buy dal lato dell’acquirente/conduttore, rendendolo potenzialmente più attraente rispetto ad altre forme di acquisto immobiliare.
Invero, il rincaro complessivo del costo del finanziamento porta i potenziali acquirenti a rimandare l’acquisto o a cercare alternative che consentano di dilazionare il pagamento senza accendere immediatamente un mutuo. In tal senso, il rent to buy, proprio perché permette al conduttore di posticipare l’acquisto, diventa una valida opzione, offrendo la possibilità di bloccare il prezzo dell’immobile e accumulare una parte del capitale necessario attraverso i canoni mensili.
Alla riscoperta del rent to buy: i pregi di una formula negoziale da incoraggiare
Nonostante i diversi ostacoli che ne hanno limitato la diffusione, il rent to buy rappresenta una formula negoziale che merita di essere riscoperta e incoraggiata. Le critiche rivolte a questo contratto si concentrano soprattutto sulla complessità gestionale e fiscale che comporta, con particolare riferimento alla necessità di una doppia contabilità per distinguere le quote imputate alla locazione e quelle imputate all’acquisto.
Inoltre, l’onerosità fiscale, unita alla mancanza di agevolazioni specifiche, ha contribuito a scoraggiarne l’utilizzo su larga scala. Anche la difficoltà nell’affrontare l’inadempimento del conduttore solleva preoccupazioni, poiché richiede comunque una procedura legale per la liberazione dell’immobile.
Tuttavia, è importante evidenziare che il rent to buy può essere una soluzione estremamente vantaggiosa in contesti particolari, ad esempio per chi non ha immediata disponibilità di capitale ma desidera comunque garantirsi la possibilità di acquistare un immobile in futuro. In un mercato immobiliare sempre più caratterizzato dalla difficoltà di accesso al credito e dalla volatilità economica, offrire una maggiore flessibilità a venditori e acquirenti potrebbe rivelarsi una chiave di successo per rilanciare questa formula contrattuale. Vieppiù, la trascrizione nei registri immobiliari garantisce una tutela importante per il conduttore, una sicurezza che difficilmente si ritrova in altre formule contrattuali simili.
In conclusione, il contratto in esame potrebbe rappresentare un’opportunità per rivitalizzare il mercato immobiliare e per offrire a una fascia più ampia della popolazione la possibilità di acquistare un immobile. Con una corretta impostazione dell’operazione e una buona consulenza legale, il rent to buy potrebbe diventare una soluzione sempre più adottata, trasformando un’alternativa poco conosciuta in una prassi diffusa e vantaggiosa.
da Redazione | Set 19, 2024 | Diritto d'Impresa
Srl o Srls? La scelta del modello societario rappresenta uno dei primi e più importanti passaggi nella pianificazione di un nuovo business o nell’avvio di una start-up. Spesso gli imprenditori si trovano dinanzi al dilemma a dover soppesare i numerosi pro e contro nella scelta di uno, piuttosto che di un altro, modello societario. In questo articolo tenteremo di dare alcune indicazioni di massima, senza pretese di esaustività, sui criteri che dovrebbero orientare la scelta tra Srl e Srls.
Invero, la decisione di costituire una Società a Responsabilità Limitata (Srl) o una Società a Responsabilità Limitata Semplificata (Srls) è cruciale per determinare la struttura giuridica e organizzativa della propria attività, con conseguenze rilevanti sul piano fiscale, patrimoniale e gestionale. Ogni imprenditore, anche nell’avvio di una start-up, deve attentamente valutare quale delle due forme societarie risponde meglio alle proprie esigenze, tenendo in considerazione non solo i costi di costituzione e gestione, ma anche le opportunità di crescita e i benefici previsti dalla normativa.
Disciplina della Srl e della Srls: similitudini e differenze
La Società a Responsabilità Limitata (Srl) è una delle forme societarie più utilizzate in Italia, particolarmente apprezzata per la sua flessibilità e per la protezione patrimoniale che offre ai soci. La Srl è disciplinata dagli artt. 2462 e seguenti del Codice Civile, come riformati dal D. Lgs. n. 6/2003, che ha profondamente innovato questa tipologia societaria, rendendola più versatile e adatta a varie esigenze imprenditoriali.
Una delle caratteristiche fondamentali di questa tipologia societaria è la responsabilità limitata dei soci. Essi rispondono delle obbligazioni sociali esclusivamente nei limiti del capitale sottoscritto; dunque, in caso di insolvenza o fallimento della società, i creditori sociali non possono rivalersi sul patrimonio personale dei soci, salvo casi eccezionali di mala gestio o di abuso della personalità giuridica (ad esempio, nei casi di confusione tra patrimonio personale e societario o di compimento di determinati atti fraudolenti).
Il capitale minimo richiesto per la costituzione di una Srl è pari a 10.000 euro. Tuttavia, la legge consente che, al momento della costituzione, i soci versino solo il 25% del capitale sociale, fermo restando l’obbligo di versare l’intero capitale in un secondo momento. Tale versamento può avvenire in denaro, ma anche in beni in natura o crediti, purché questi siano valutabili economicamente e siano oggetto di una perizia giurata che ne attesti il valore.
La Srl si costituisce mediante atto pubblico notarile, e l’atto costitutivo deve contenere obbligatoriamente alcune indicazioni, tra cui l’ammontare del capitale sociale, l’oggetto sociale, le regole per la gestione e la rappresentanza della società, nonché le modalità di ripartizione degli utili. Lo statuto della Srl può essere ampiamente personalizzato, consentendo ai soci di prevedere clausole specifiche in relazione all’amministrazione, al trasferimento delle quote sociali, alla distribuzione degli utili o alla gestione delle perdite. Questa flessibilità consente di adattare la struttura societaria alle specifiche esigenze dei soci.
La Società a Responsabilità Limitata Semplificata (Srls) è stata introdotta nel nostro ordinamento con il D.L. n. 1/2012 con l’obiettivo di favorire l’imprenditoria giovanile e semplificare le procedure di avvio di nuove imprese. La Srls rappresenta una variante semplificata della Srl, pensata per rendere più agevole e meno onerosa la costituzione di società da parte di soggetti con risorse limitate.
Anche nella Srls, i soci godono della responsabilità limitata, come nella Srl, rispondendo delle obbligazioni sociali solo nei limiti del capitale sottoscritto, senza che il loro patrimonio personale possa essere aggredito dai creditori sociali.
La principale peculiarità della Srls è la possibilità di costituirla con un capitale sociale estremamente ridotto, che può ammontare anche a 1 euro. Tuttavia, se il capitale è inferiore ai 10.000 euro, si applicano alcune regole particolari: in primo luogo, il capitale deve essere interamente versato al momento della costituzione (non è consentito il versamento parziale, come nella Srl); inoltre, fino al raggiungimento del capitale minimo di 10.000 euro, gli utili devono essere destinati a riserva legale, nella misura del 20%, anziché il 5% previsto per la Srl.
La Srls si costituisce anch’essa mediante atto pubblico notarile, ma una differenza rilevante rispetto alla Srl è che l’atto costitutivo della Srls deve seguire un modello standard approvato dal Ministero della Giustizia. Questo significa che i soci non possono inserire clausole particolari riguardanti la governance, il trasferimento delle quote o la distribuzione degli utili, se non nei limiti del modello prestabilito.
Quanto alla governance, la Srls può essere gestita da uno o più amministratori, secondo le modalità previste dal modello standard di statuto. Tuttavia, nonostante la semplicità del modello, i soci possono comunque scegliere tra amministrazione individuale o collettiva. Una peculiarità della Srls è che gli amministratori devono necessariamente essere soci della società, a differenza della Srl, in cui è possibile nominare amministratori esterni.
Il capitale sociale è suddiviso in quote, ma la cessione delle partecipazioni è soggetta a maggiori limitazioni rispetto alla Srl, a causa della rigidità del modello statutario standardizzato.
Tutto ciò premesso, risulta evidente come i due modelli societari presentino numerose caratteristiche in comune, ma differiscono per alcuni aspetti essenziali che possono influire sulla scelta dell’imprenditore. Entrambe le forme societarie sono caratterizzate dalla responsabilità limitata dei soci, ossia il rischio patrimoniale è circoscritto al capitale sottoscritto nella società, senza coinvolgimento del patrimonio personale dei soci.
Le differenze più rilevanti riguardano i requisiti di costituzione e la struttura del capitale sociale. Nella Srl, il capitale minimo richiesto è pari a 10.000 euro, mentre nella Srls può essere costituito con un capitale simbolico, a partire da 1 euro, fino a un massimo di 9.999 euro. Nella Srls l’unica modalità di conferimento ammessa (art. 2463-bis, comma 2, n. 3) è il conferimento in denaro, il quale deve essere depositato sul conto corrente della società al momento della costituzione, senza la possibilità di differire il versamento o di utilizzare altre forme di conferimento.
Un’altra distinzione riguarda l’atto costitutivo: mentre per la Srl può essere liberamente redatto e modificato in funzione delle esigenze specifiche dei soci, l’atto costitutivo della Srls deve necessariamente conformarsi a un modello standard previsto dalla legge, senza possibilità di personalizzazioni significative. Secondo l’art. 2463-bis c.c. “Le clausole del modello standard tipizzato sono inderogabili”.
Nella Società a Responsabilità Limitata Semplificata (Srls) possono essere soci solo persone fisiche. Invero, secondo l’interpretazione prevalente dell’art. 2463-bis, comma 1, c.c. le persone giuridiche non possano partecipare come soci in una Srls. Se ciò dovesse avvenire la società è tenuta a “convertirsi” in Srl ordinaria. Questo è uno dei grandi limiti specifici di questa forma societaria, pensata per facilitare l’accesso all’imprenditoria individuale o a gruppi di persone fisiche che vogliono avviare un’attività con procedure semplificate e minori costi.
Pro e contro nella scelta tra Srl e Srls
Le due forme societarie offrono differenti opportunità e si distinguono per vantaggi e svantaggi che variano in funzione delle esigenze specifiche dell’impresa e degli obiettivi di lungo termine.
Da un lato, la Srl si caratterizza per una maggiore flessibilità e personalizzazione, che si riflette tanto nella struttura dell’atto costitutivo quanto nella gestione complessiva della società. Uno dei principali punti di forza della Srl risiede nella possibilità di modulare lo statuto societario in base alle particolari esigenze dei soci, consentendo di inserire clausole dettagliate in merito alla governance, alla distribuzione degli utili e al trasferimento delle quote sociali.
Tale flessibilità si rivela fondamentale per chi intende costituire una società destinata a crescere nel tempo o per quegli imprenditori che desiderano attrarre partner commerciali o investitori esterni. La Srl, infatti, grazie alla solidità che può derivare da un capitale sociale di almeno 10.000 euro, tende ad essere percepita come una forma societaria più strutturata e affidabile, particolarmente adatta a imprese di dimensioni medio-grandi o con progetti di espansione.
Tuttavia, questo modello comporta anche dei costi di costituzione e di gestione più elevati rispetto alla Srls. La costituzione di una Srl richiede, di regola, il pagamento di onorari notarili più consistenti, oltre che l’adempimento di obblighi formali e fiscali più complessi. Inoltre, la necessità di un capitale minimo di 10.000 euro può rappresentare un ostacolo per gli imprenditori che dispongono di risorse finanziarie limitate. Cionondimeno, questo impegno economico iniziale è spesso giustificato dalla maggiore flessibilità organizzativa e dalla possibilità di attrarre capitali e investitori con più facilità rispetto a una Srls.
Dall’altro lato, la Srls presenta il vantaggio di avere costi di costituzione ridotti e dalla possibilità di costituire la società con un capitale sociale minimo. Questa caratteristica rende la Srls particolarmente adatta a giovani imprenditori o a coloro che, pur avendo idee innovative, non dispongono di ingenti capitali iniziali. Inoltre, le procedure burocratiche e amministrative sono semplificate rispetto alla Srl, permettendo una gestione più snella e meno onerosa dal punto di vista economico e formale.
Tuttavia, proprio questa semplicità presenta alcuni limiti significativi. Il fatto che l’atto costitutivo debba seguire un modello standard, previsto dalla legge, riduce notevolmente la possibilità di personalizzazione. I soci di una Srls, infatti, non hanno la stessa libertà di adattare lo statuto societario in funzione delle proprie esigenze, il che può rappresentare uno svantaggio nel caso in cui la società cresca e necessiti di una gestione più articolata. Le limitazioni nella distribuzione degli utili – una parte dei quali deve essere obbligatoriamente destinata a riserva legale fino al raggiungimento del capitale sociale di 10.000 euro – possono inoltre rallentare la capacità di reinvestire gli utili nella società stessa o di redistribuirli tra i soci.
Sul piano della capacità di attrarre investimenti, la Srls risulta generalmente meno appetibile per gli investitori esterni, soprattutto per il fatto che il capitale sociale è partecipato da sole persone fisiche. Di contro, la Srl, grazie alla sua maggiore flessibilità statutaria e al capitale sociale più consistente, viene spesso vista come una struttura più solida e affidabile, ideale per imprese che puntano a ottenere finanziamenti da investitori privati o da istituzioni finanziarie.
La disciplina delle start-up innovative
Negli ultimi anni, la legislazione italiana ha introdotto strumenti specifici per incentivare la nascita e lo sviluppo delle cosiddette start-up innovative. Questa tipologia di impresa è stata regolata inizialmente dal Decreto Legge n. 179/2012, che ha definito i criteri per la costituzione di start-up innovative, nonché i numerosi vantaggi di cui possono beneficiare.
Non è questa la sede per esaminare a fondo la disciplina delle start-up innovative, per cui ci limiteremo ad alcuni sintetici cenni.
Anzitutto, l’attività principale della start-up deve essere chiaramente finalizzata allo sviluppo, produzione e commercializzazione di prodotti o servizi ad alto contenuto tecnologico. Questo è un aspetto fondamentale per qualificare la società come “innovativa”.
Oltre ai requisiti generali, la società deve rispettare almeno uno dei seguenti criteri che definiscono l’innovatività del progetto: (i) la società deve destinare almeno il 15% delle spese annuali complessive in attività di ricerca e sviluppo.
Tra queste spese rientrano i costi per l’acquisto di strumentazioni e tecnologie avanzate, spese per il personale dedicato alla ricerca o al design, e anche i costi di sviluppo del prodotto o dei servizi innovativi; (ii) la start-up deve impiegare personale qualificato, ovvero almeno un terzo del personale deve essere in possesso di una laurea magistrale, oppure almeno due terzi del personale deve avere una laurea triennale; (iii) la start-up deve essere titolare, depositaria o licenziataria di almeno un brevetto per un’invenzione industriale, biotecnologica, o deve essere titolare di un software registrato.
Per poter essere riconosciuta come start-up innovativa, una società deve soddisfare una serie di requisiti generali. In primo luogo, la società deve essere nuova o costituita da meno di 60 mesi, ovvero non deve essere stata operativa da più di cinque anni. Inoltre, il suo fatturato annuo non può superare i 5 milioni di euro, e non deve aver distribuito utili sin dalla sua costituzione.
La start-up innovativa deve avere come oggetto sociale lo sviluppo, la produzione o la commercializzazione di prodotti o servizi innovativi ad alto valore tecnologico, e deve impiegare una quota significativa delle proprie risorse nell’attività di ricerca e sviluppo. Un altro requisito chiave è che la start-up non deve derivare da una fusione, scissione o cessione di un ramo d’azienda già esistente, al fine di assicurare che la sua origine sia legata all’avvio di una nuova impresa e non alla ristrutturazione di una preesistente.
Una volta riconosciuta come start-up innovativa, la società può godere di una serie di vantaggi di tipo fiscale, amministrativo e finanziario, finalizzati a sostenere le prime fasi di sviluppo dell’impresa. Tra i più rilevanti, vi è l’esenzione dai diritti camerali e dalle imposte di bollo, che normalmente gravano sulle procedure di costituzione e sulle pratiche amministrative. Le start-up innovative godono inoltre di agevolazioni fiscali per quanto riguarda i contributi previdenziali e le imposte sul reddito delle persone fisiche che investono nel loro capitale sociale. Tali investimenti, infatti, possono beneficiare di incentivi fiscali sotto forma di detrazioni o deduzioni d’imposta, a seconda che l’investitore sia una persona fisica o una persona giuridica.
Sul fronte delle procedure di costituzione, le start-up innovative godono di notevoli semplificazioni rispetto ad altre tipologie di imprese. Possono infatti costituirsi digitalmente, senza la necessità di ricorrere all’intervento di un notaio, utilizzando una procedura online gratuita tramite il portale della Camera di Commercio. Questo non solo riduce i costi di avvio, ma velocizza significativamente i tempi di costituzione. Le start-up innovative possono essere costituite sia come Srl che come Srls, e la richiesta di iscrizione nel registro delle start-up innovative può avvenire in qualunque momento della vita societaria, purché la società soddisfi i requisiti previsti dalla legge.
In termini di accesso al credito, le start-up innovative beneficiano di una serie di strumenti agevolativi. Tra questi, il Fondo di Garanzia per le PMI, che concede alle start-up innovative una garanzia statale per facilitare l’ottenimento di prestiti bancari, riducendo il rischio per le banche e rendendo più agevole l’accesso a capitali anche per imprese di recente costituzione, che spesso faticano a ottenere finanziamenti. Inoltre, le start-up innovative possono ricorrere a forme di finanziamento alternative, come il crowdfunding, che consente loro di raccogliere fondi da un ampio numero di investitori attraverso piattaforme online, con procedure più semplici rispetto alle tradizionali emissioni di capitale.
Le start-up innovative hanno accesso anche a un regime particolarmente vantaggioso in caso di crisi o difficoltà finanziarie. La legislazione prevede infatti che esse non siano soggette alle normali procedure concorsuali nei primi anni di vita, godendo di un regime di esenzione dal fallimento e dalle procedure di insolvenza fino al quarto anno di attività.
Un altro aspetto fondamentale riguarda la tutela del lavoro all’interno delle start-up innovative. La normativa ha introdotto una maggiore flessibilità nei rapporti di lavoro, permettendo alle start-up di stipulare contratti di lavoro a tempo determinato con una durata massima di 36 mesi, senza necessità di specificare una causale. Al termine di questo periodo, il contratto può essere rinnovato una volta per altri 12 mesi. Questa flessibilità consente alle start-up di adattarsi rapidamente alle esigenze del mercato e di gestire in modo più dinamico il proprio organico.
Conclusione
In definitiva, la scelta tra Srl e Srls dipende strettamente dalle circostanze specifiche del singolo imprenditore e dalla natura del business che si intende avviare. La Srls rappresenta una soluzione ottimale per chi desidera avviare una piccola impresa con costi di avvio ridotti e una gestione semplificata, senza dover far fronte a un impegno economico significativo in fase di costituzione. D’altra parte, la Srl si dimostra più adatta a chi ha ambizioni di crescita e vuole fin da subito costruire una struttura societaria più complessa e flessibile, capace di attrarre investitori e di adattarsi ai cambiamenti delle dinamiche aziendali nel tempo.
Per le imprese ad alto contenuto tecnologico, la costituzione come start-up innovativa rappresenta un’opportunità da valutare attentamente, grazie ai numerosi vantaggi fiscali e agevolazioni previsti dalla legge. Pertanto, la scelta del modello societario deve essere compiuta con attenzione, considerando le peculiarità del business e le prospettive di sviluppo a medio-lungo termine.
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da Redazione | Set 17, 2024 | Diritto Penale
Nella G.U. del 10 agosto 2024 è stato pubblicato il testo della Legge 114/2024, anche nota come “riforma Nordio”, entrata in vigore lo scorso 25 agosto.
La novella attua una importante revisione del sistema di giustizia penale italiano, introducendo una serie di modifiche volte a migliorare la speditezza del processo penale, a rafforzare la tutela dei diritti individuali e a ridurre l’arretrato giudiziario. Provvederemo in questa sede a una breve disamina delle modifiche introdotte nel codice penale e nel codice di procedura penale.
La riforma del diritto penale sostanziale
Con riferimento alle disposizioni di diritto penale sostanziale, la legge di riforma ha abolito il reato di abuso d’ufficio (art. 323 c.p.) e riscritto la fattispecie di traffico di influenze illecite (art. 346-bis c.p.).
Così facendo il legislatore ha notevolmente ristretto l’area del penalmente rilevante nel settore dei delitti contro la p.a., dando altresì luogo ad ampi effetti depenalizzanti ai sensi dell’art. 2, comma 2 c.p.
Per quanto riguarda il traffico di influenze illecite, ai fini della configurabilità del reato, sarà necessario – secondo la nuova formulazione – che le relazioni del mediatore con il pubblico ufficiale siano esistenti ed effettivamente utilizzate (non solo vantate); in secundis che l’utilizzazione delle relazioni avvenga “intenzionalmente allo scopo” di porre in essere le condotte esecutive del reato (dolo intenzionale); è punita la remunerazione del pubblico funzionario in relazione all’esercizio delle sue “funzioni” (e non più, anche dei suoi “poteri”).
Si punisce inoltre in via residuale la realizzazione di “altra mediazione” per tale intendendosi la mediazione «per indurre il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio […] a compiere un atto contrario ai doveri d’ufficio costituente reato dal quale possa derivare un vantaggio indebito».
Infine, vengono estese al traffico di influenze illecite le due cause di non punibilità del ravvedimento post delictum di cui all’art. 323-bis c.p., e quella della volontaria denuncia del fatto di cui all’art. 323 ter c.p.
La riforma del diritto processuale penale
Tra i punti principali in materia di diritto processuale penale, vi è la modifica di alcune disposizioni sul procedimento applicativo della custodia cautelare in carcere. Si prevede l’anticipazione dell’interrogatorio di garanzia anche oltre i limiti previsti in passato, al fine di assicurare un confronto preventivo con il Gip e consentire alla difesa di addurre argomenti a sostegno dell’innocenza o comunque dell’insussistenza dei presupposti per l’adozione della misura.
In ottica garantistica, è stato individuato il giudice collegiale quale autorità competente a disporre la più grave delle misure cautelari: il comma 1-quinquies all’art. 328 c.p.p. prevede che il giudice per le indagini preliminari decida in composizione collegiale l’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere. Analogamente sono state modificate dalla riforma le norme sull’istanza di modifica in peius (con un’interpolazione dell’art. 299, comma 2, c.p.p.) e sulla competenza funzionale a compiere l’interrogatorio preventivo (art. 291, comma 1-quinquies).
La novella di riforma è intervenuta anche sulle disposizioni del Codice di procedura penale relative agli strumenti di captazione. Il divieto di pubblicazione delle conversazioni intercettate di cui all’art. 114 c.p.p. assume portata generale, salvo il caso in cui il contenuto dell’intercettazione sia stato «riprodotto dal giudice nella motivazione di un provvedimento o utilizzato nel corso del dibattimento». Anche in caso di richiesta di copia o estratti di singoli atti, non è consentito il rilascio delle copie delle intercettazioni di cui è vietata la pubblicazione, tranne che l’istanza provenga dalle parti o dai relativi difensori.
Infine, circa l’esecuzione delle operazioni di intercettazione, la riforma Nordio ha introdotto disposizioni volte a rafforzare la tutela della riservatezza del terzo estraneo al procedimento e vietare l’acquisizione di ogni forma di comunicazione, anche diversa dalla corrispondenza, intercorsa tra l’imputato e il proprio difensore «salvo che l’autorità giudiziaria abbia fondato motivo di ritenere che si tratti di corpo del reato».
Le esigenze di tutela della riservatezza dell’indagato hanno ispirato anche la modifica dell’art. 369 c.p.p. sull’informazione di garanzia. Si prevede nello specifico che essa debba contenere la sola descrizione sommaria del fatto, e che il divieto attenuato di pubblicazione degli atti d’indagine di cui all’art. 114, comma 2, c.p.p. sia esteso anche all’informazione di garanzia, fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare.
Nell’ottica di una maggiore speditezza dei processi e di smaltimento dell’arretrato, sono state modificate alcune disposizioni in tema di impugnazioni. La più rilevante concerne la limitazione dei casi di appello del pubblico ministero, che non potrà appellare contro le sentenze di proscioglimento per i reati di cui all’articolo 550, commi 1 e 2 c.p.p. (trattasi di quei reati di minor allarme sociale per i quali si procede con citazione diretta a giudizio).
Trattasi di una riforma che, pur essendo animata da un generale favor rei, lascia molti punti insoluti e aspetti irrisolti.
Difesa nel processo penale – Studio Legale Luca D’Agostino, Roma.
da Redazione | Set 17, 2024 | Diritto d'Impresa
Antiriciclaggio e nuove tecnologie: quali novità all’orizzonte? Si riporta di seguito il testo dell’intervento svolto dall’Avv. Luca D’Agostino in occasione del convegno «Cripto-attività e criminalità. Riflessioni a valle del regolamento MICA e in vista del pacchetto antiriciclaggio» tenutosi presso la Scuola di Polizia Economico Finanziaria della Guardia di Finanza il 24 maggio 2024.
Il nuovo pacchetto antiriciclaggio: estratto dell’intervento dell’Avv. Luca D’Agostino
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Buongiorno vorrei anzitutto ringraziare il Comandante della Scuola, Francesco Mattana, per il gradito invito. Per me è un grande piacere, oltre che un onore, intervenire a chiusura della sessione mattutina, dedicata ai profili di diritto penale sostanziale. Il tema che mi è stato assegnato è quello del “nuovo pacchetto antiriciclaggio e l’impatto sul mondo cripto”.
Si registra, a livello nazionale ed europeo, una crescente tendenza alla iper-regolamentazione del fenomeno. Per rendersene conto è sufficiente considerare che, fino al 2017, non esisteva alcuna normativa di settore – e non mi riferisco soltanto alla prevenzione del riciclaggio – che disciplinasse l’emissione e il trasferimento di criptoattività.
Quando venne alla deriva l’enorme potenziale criminogeno delle “valute virtuali” (al tempo si preferiva chiamarle così) gli Stati si trovarono di fronte a una scelta di campo vietare in toto la circolazione di tali valori, considerandoli alla stregua di beni intrinsecamente illeciti; oppure contenere i rischi di un impiego per finalità illecite, prevedendo adempimenti, controlli e sanzioni a carico degli emittenti e degli intermediari.
La maggior parte degli ordinamenti nazionali a livello globale, anche in ragione dei consistenti interessi economici sottesi alla circolazione dei nuovi valori (acquistati e scambiati anche da investitori istituzionali di grosso calibro, banche, intermediari finanziari, fondi d’investimento), hanno prediletto il secondo approccio, quello di una stringente regolamentazione.
Oggi ci troviamo di fronte a un quadro regolamentare multilivello, di crescente complessità, che investe diversi settori del diritto (es. tributario, mercati finanziari, antiriciclaggio). In questo intervento mi concentrerò sulle novità che riguardano la prevenzione del riciclaggio, svolgendo alcune brevi considerazioni sull’impatto delle scelte compiute dal legislatore.
È notizia dello scorso mese di gennaio il raggiungimento di un accordo provvisorio tra Consiglio e Parlamento UE per introdurre nuove regole (un c.d. pacchetto di riforma) della disciplina antiriciclaggio. Per quel che qui interessa, l’emanando Regolamento prevede l’estensione del novero dei soggetti obbligati a tutti i provider del settore delle cripto-attività. Si vuole in tal modo superare l’attuale previsione (contenuta nella V direttiva antiriciclaggio, art. 1 lett. c) che circoscrive la cornice di obblighi ai soli exchange e wallet provider.
Tale scelta appare condivisibile e in linea con l’approccio già seguito in molti Stati membri. Emblematico l’esempio offerto dal legislatore italiano che, già dal 2019, ha esteso gli obblighi del T.U. antiriciclaggio a tutti i “prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale”.
La definizione fornita dall’art. 1, lett. ff) è chiarissima: sono tali tutti i “servizi funzionali all’utilizzo, allo scambio, alla conservazione di valuta virtuale e alla loro conversione da ovvero in valute aventi corso legale o […] nonché i servizi di emissione, offerta, trasferimento e compensazione e ogni altro servizio funzionale all’acquisizione, alla negoziazione o all’intermediazione nello scambio delle medesime valute”. Già sul piano definitorio ci si rende conto della sostanziale differenza tra l’ambito di applicazione della normativa italiana e lo standard di armonizzazione imposto dalla V direttiva.
Occorre inoltre osservare come l’estensione dei soggetti obbligati all’antiriciclaggio sia in linea con la Raccomandazione n. 15 del GAFI (come modificata nel 2019) che definisce in modo piuttosto ampio i VASP (Virtual Asset Service Provider). Nel testo provvisorio dell’accordo si individua la nuova figura del CASP (Crypto-Asset-Service-Provider) come definito dall’art.3, par. 1 del Regolamento MICA, il quale abbraccia moltissime attività e servizi (che non si limitano ai soli servizi di scambio e di portafoglio digitale). Quindi la prima novità consiste nell’ampiamento dei soggetti obbligati.
Una seconda novità, prevista nell’accordo provvisorio, riguarda la soglia minima delle operazioni (stabilita in euro 1.000), superata la quale i prestatori di servizi per le cripto-attività dovranno applicare misure di adeguata verifica della clientela. Al riguardo possiamo osservare come anche in questo caso l’Unione si sia conformata alle Raccomandazioni del GAFI (v. par. 7 della Nota Interpretativa alla Raccomandazione n. 15).
L’accordo prevede poi norme specifiche applicabili ai portafogli self-hosted (comunemente noti come portafogli privati). Si tratta di hardware e software utilizzati per memorizzare, detenere o trasferire criptoattività: grazie ad essi il proprietario ha il completo controllo della propria chiave privata. In sostanza il self-hosted address è quell’indirizzo non collegato a un prestatore di servizi intermediari. Appaiono evidenti i maggiori rischi collegati a tali indirizzi, perché con essi i criminali potrebbero evitare il passaggio per intermediari e provider di servizi (e ciò, peraltro, rappresenta la ragione “storica” della creazione di Bitcoin).
Sul punto l’art. 31b della Proposta di Regolamento prevede che i destinatari della disciplina antiriciclaggio saranno tenuti ad adottare politiche, procedure e controlli rafforzati e a richiedere informazioni aggiuntive sull’origine e la destinazione dei cripto-asset quando il trasferimento sia diretto a (o provenga da) portafogli privati. Ciò è reso possibile grazie alla creazione di un database di indirizzi ospitati (perché gestiti da intermediari).
Un cenno merita anche la disciplina introdotta dal Regolamento (UE) 2023/1113 riguardante i dati informativi che accompagnano i trasferimenti di fondi in cripto-attività, applicabile a partire dal 30 dicembre 2024. Quest’ultimo stabilisce le norme relative alle informazioni sugli ordinanti e sui beneficiari che accompagnano i trasferimenti di cripto-asset, ai fini della prevenzione del riciclaggio di denaro e del finanziamento del terrorismo.
Conclusioni sul nuovo pacchetto antiriciclaggio
In estrema sintesi la normativa antiriciclaggio impone ai provider dell’ordinante e del beneficiario di acquisire informazioni con elevato grado di dettaglio e anche di verificare l’accuratezza delle informazioni di sulla base di documenti, dati o informazioni ottenuti da una fonte affidabile e indipendente. Si tratta di una normativa che lascia aperti molti dubbi e desta, a mio avviso qualche perplessità.
In primis occorre considerare che quando la normativa antiriciclaggio sarà attuata la procedura per operare un trasferimento di fondi crypto sarà complessa, anche più complessa dell’esecuzione di un bonifico bancario transfrontaliero. Gli operatori avranno l’obbligo di sospendere o bloccare un trasferimento anche in caso di sospetto di una incompletezza di dati o informazioni (e dunque senza che vi siano necessariamente gli estremi di una “operazione sospetta”). È sicuramente una scelta cautelativa, ma probabilmente troppo rigida, se l’intento (come dichiarato dalla Commissione) è quello incentivare la crescita degli scambi e favorire il mercato crypto.
Altri dubbi riguardano gli indirizzi self-hosted. In caso di trasferimento di cripto-attività effettuato verso un indirizzo privato, il prestatore di servizi del cedente deve assicurare – leggo testualmente – “che i trasferimenti di cripto-attività possano essere identificati individualmente”. Questo cosa vuol dire? Che dovrà essere indicato il nome di una persona fisica? Quid iuris se il beneficiario è una società? Come si verifica la corrispondenza rispetto alle informazioni realmente in possesso dell’ordinante?
Si prevede poi che, nel caso di un trasferimento di importo superiore a 1.000 euro verso un indirizzo privato che il prestatore di servizi del cedente – leggo anche qui testualmente – “adotta misure adeguate per valutare se tale indirizzo sia di proprietà del cedente o da questi controllato”. La disposizione sembra voler arginare il rischio di operazioni di autoriciclaggio compiute dal cedente mediante un indirizzo self-hosted (e dunque controllato da egli stesso). Si tratta di un fenomeno ricorrente, come emerge da alcuni studi di Europol, secondo cui i crypto-asset hanno alimentato la tendenza al “fai da te”, rendendo superfluo il ricorso alla condotta di terzi.
Ma viene da chiedersi: come potrebbe il provider rendersi conto che il beneficiario dei fondi è lo stesso mittente? Se viene utilizzato, ad esempio un nome di fantasia, quali sono i dati oggettivi per avere un riscontro? Esistono degli indicatori o dei pattern da cui poter desumere che ti tratta di un indirizzo self-hosted?
Il problema resta aperto poiché, in questo caso, non abbiamo dal lato del cessionario alcun provider che possa controllare le informazioni indicate dal mittente.
Per trarre le fila del discorso, sembra che anche nel novellato quadro normativo antiriciclaggio, continueranno ad esistere (sia pur in misura ridotta) transazioni avvolte dall’ombra e celate dal mistero. Ed è forse il caso di ammettere che, volendo far salva la tecnologia DLT e la circolazione di criptoattività, il legislatore più di questo non può fare.
Reati informatici cyberlaundering e diritto penale – Immagine rappresentativa dei servizi di assistenza e difesa legale presso lo Studio Legale Avvocato Luca D’Agostino a Roma
da Redazione | Set 17, 2024 | Diritto d'Impresa
Nel ringraziare il Ministero dell’Università e della Ricerca per il gradito invito alla Giornata Nazionale della Cybersicurezza, si riporta di seguito – a fini divulgativi – un estratto della relazione tenuta lo scorso 29 novembre dall’Avv. Luca D’Agostino.
Il video dell’intervista alla Giornata Nazionale della Cybersicurezza è disponibile al seguente link.
Cybersicurezza: l’intervento dell’Avv. Luca D’Agostino
Parlare di Cybersicurezza al fianco delle Istituzioni è sempre motivo di grande soddisfazione, oltre che di crescita professionale. Una materia che rappresenta oggi una priorità per il Sistema-Paese, come testimoniato da numerosi atti di impegno politico e dagli investimenti programmati nell’ambito del PNRR. Una priorità non soltanto per la pubblica amministrazione, ma anche per il tessuto economico e sociale italiano che, ogni anno, soffre numerose perdite a causa di attacchi informatici oppure per una non corretta governance del cyber risk.
Si va verso la costruzione di un vero e proprio “ponte di comunicazione” tra settore pubblico e privato. Comuni sono le minacce da prevenire, le esigenze da soddisfare e le best practices da osservare. Anche per questo è fondamentale attivare canali di collaborazione e scambio di informazioni tra i due ambiti, pubblico e privato.
Da docente e avvocato penalista ho sempre ritenuto centrale il tema della corporate compliance che, fino a ieri, era conosciuto soltanto dalle società di grandi dimensioni. Oggi invece, anche grazie alle evoluzioni del quadro normativo, l’idea di una compliance verso il digitale si è radicata anche in aziende di medie dimensioni e in molte pubbliche amministrazioni. La cybersicurezza è l’emblema di questa tendenza.
Il nucleo duro di questa materia è, come noto, la prevenzione del rischio e il contenimento dei danni che derivano da un incidente informatico. In estrema sintesi, la cybersicurezza ha una duplice anima: presidio di legalità all’interno dell’ente e protezione dalle minacce esterne.
Ecco individuate quelle che, a mio avviso, sono le parole chiave della ricerca in ambito cyber: multidisciplinarietà, cultura della prevenzione, e partenariato pubblico-privato.
Negli ultimi anni il legislatore è intervenuto a più riprese sul tema della cybersicurezza, dando vita a un quadro istituzionale e di disciplina decisamente articolato Si tratta di un settore molto giovane, ma già caratterizzato dalla stratificazione di fonti “multilivello” di notevole complessità.
Benché già vi fossero alcuni atti amministrativi generali in materia, l’esperienza italiana inizia esattamente dieci anni fa con il Decreto Monti del 2013 che delineava, per la prima volta, l’architettura nazionale per la cybersicurezza, poi attuata nel 2015 con la Direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri. Erano soltanto gli esordi di una normativa che, a partire dal 2016, è letteralmente esplosa grazie agli input offerti dal legislatore comunitario e per effetto dell’accresciuta consapevolezza dell’importanza di questa materia.
Si tratta dunque di un quadro regolatorio multilivello, caratterizzato dalla stratificazione di fonti normative diverse e di crescente complessità. Potremmo anche considerare la cybersicurezza un “nuovo settore regolamentato” che, al pari di altri (es. anticorruzione, concorrenza, servizi a rete etc.), mira a tutelare gli interessi dello Stato e della collettività in settori di particolare interesse.
La tecnica per imporre il raggiungimento degli obiettivi di cybersicurezza fa leva sulla accountability (c.d. approccio basato sul rischio). É un modello certamente flessibile, che assicura una certa proporzionalità e adeguatezza in concreto: ciascun operatore dovrà valutare il rischio e adottare delle misure che siano adeguate e proporzionate al rischio stesso. L’esempio emblematico è quello della normativa NIS, la quale prevede che gli operatori dei servizi essenziali debbano adottare misure tecniche organizzative adeguate e proporzionate (art. 12 comma 1, D. Lgs. 65/2018); oppure quello del GDPR sulle misure di sicurezza nel trattamento dei dati personali.
Debbono tuttavia essere messi in luce anche gli aspetti negativi, tra cui in primis l’incertezza sull’avvenuto assolvimento degli obblighi di legge. Difatti, laddove si verificasse un incidente informatico l’Autorità potrebbe ex post ritenere insufficienti i presidi adottati. L’accountability può quindi rivelarsi una sorta spada di Damocle che incombe sui destinatari della disciplina, esposti al rischio di un sindacato negativo sulle proprie scelte organizzative.
Da ultimo vorrei soffermare l’attenzione sulle principali novità introdotte dalla direttiva NIS 2 in punto di cybersicurezza, di prossima attuazione a livello nazionale. Essa ha esteso campo di applicazione degli obblighi di prevenzione e notifica, che si rivolgono a due nuove categorie di soggetti, definiti come “essenziali” e “importanti” . Vi rientrano non soltanto gli operatori nei settori indicati dalla prima direttiva (OSE e FSD), ma anche quelli che prestano servizi altrettanto critici (es. servizi postali e di consegna, gestione dei rifiuti, fabbricazione di dispositivi medici o sistemi informatici etc.).
Cybersicurezza e NIS 2: le novità sul versante sanzionatorio
Ma le novità più significative introdotte dalla NIS 2 riguardano il versante sanzionatorio. L’art. 21 della prima Direttiva prevedeva che gli Stati dovessero stabilire le sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive da irrogare in caso di violazione delle disposizioni nazionali di attuazione. La scelta del legislatore italiano è stata nel senso di prevedere sanzioni pecuniarie nell’appendice del D. Lgs. 65/2018 per poche migliaia di Euro, che non assicurano una sufficiente deterrenza, e appaiono inadeguate rispetto alla rilevanza degli interessi protetti e alla capacità economica dei soggetti NIS.
Un netto cambiamento di rotta si è avuto con l’emanazione della seconda direttiva, che ha irrigidito la risposta sanzionatoria e introdotto una inedita forma di responsabilità degli apicali della società. L’art. 35 della Direttiva prevede sanzioni molto severe per l’omessa adozione delle misure di sicurezza e l’inosservanza dell’obbligo di notifica, secondo un modello che ricorda molto l’apparato sanzionatorio del GDPR. Nel dettaglio, i soggetti “importanti” saranno soggetti a sanzioni pecuniarie fino a Euro 7.000.000 o, se superiore, fino all’1,4 % del totale del fatturato mondiale annuo per l’esercizio precedente. Gli importi sono elevati, rispettivamente a Euro 10.000.000 o al 2% del totale del fatturato mondiale annuo per i soggetti qualificati come “essenziali”.
Al riguardo è opportuno svolgere un paio di considerazioni. In primis, la severità delle sanzioni lascerà discutere – come del resto avvenuto a proposito delle sanzioni pecuniarie previste in materia privacy – sulla possibilità di ascriverle al concetto di “materia penale” secondo gli orientamenti della Corte EDU. Ormai si parla sempre più spesso di ibridazione del diritto penale, verso un diritto lato sensu sanzionatorio.
In secondo luogo, ai sensi dell’art. 20 della Direttiva, gli Stati dovranno disciplinare la responsabilità degli organi di governance della società in caso dell’inosservanza degli obblighi di compliance (es. mancata adozione di misure di prevenzione dei rischi, di mantenimento della business continuity e politiche di disaster recovery, pratiche di formazione in materia di cibersicurezza). Non resta che attendere la normativa di attuazione (che dovrà giungere entro il 17 ottobre 2024) per valutare in che modo il legislatore scioglierà il nodo sulla natura di tale responsabilità.
Studio Legale D’Agostino a Roma: consulenza su Cybersicurezza, Decreto NIS 2, cyber security e sicurezza informatica.