da Redazione | Ott 2, 2024 | Diritto civile
Il Decreto-legge 69/2024, meglio conosciuto come Decreto Salva Casa, rappresenta una svolta importante nel campo dell’edilizia e dell’urbanistica. Le nuove norme mirano a semplificare le procedure per la regolarizzazione di piccoli abusi edilizi e a facilitare la compravendita degli immobili. L’obiettivo di questo articolo è quello di spiegare in modo chiaro e accessibile le principali modifiche introdotte dal decreto al DPR 380/2001, evidenziando le opportunità che ne derivano per i proprietari di immobili e per i professionisti del settore edilizio.
Le novità del Salva Casa riguardano diversi aspetti chiave, come l’edilizia libera, lo stato legittimo degli immobili, i cambi di destinazione d’uso e le tolleranze costruttive, e puntano a risolvere alcune rigidità normative che spesso ostacolavano la gestione e la valorizzazione del patrimonio immobiliare, specialmente residenziale.
Questo articolo si propone di illustrare in dettaglio tali modifiche e di sottolineare l’importanza di un’assistenza legale specializzata per affrontare queste nuove sfide e opportunità con sicurezza.
Decreto Salva Casa: semplificazioni nell’attività edilizia libera (art. 6 DPR 380/2001)
Una delle principali novità del Decreto Salva Casa riguarda l’attività edilizia libera, disciplinata dall’art. 6 del DPR 380/2001. Con le nuove modifiche, viene ampliata la gamma di interventi che possono essere realizzati senza bisogno di un permesso edilizio, offrendo maggiori possibilità ai proprietari di apportare miglioramenti alle proprie abitazioni in modo più rapido e semplice.
In particolare, il decreto Salva Casa introduce la possibilità di installare vetrate panoramiche amovibili (VEPA) e strutture per la protezione dal sole e dagli agenti atmosferici in regime di edilizia libera. Questo significa che tali interventi, se rispettano determinati requisiti tecnici ed estetici, possono essere realizzati senza dover ottenere un titolo abilitativo, rendendo più agevole la loro esecuzione.
Ad esempio, le vetrate panoramiche amovibili dovranno essere trasparenti e rimovibili, senza creare spazi stabilmente chiusi o aumentare le volumetrie dell’edificio. La loro funzione è principalmente quella di migliorare le prestazioni energetiche e acustiche degli edifici, proteggendo allo stesso tempo dagli agenti atmosferici. Le strutture di protezione dal sole (come tende o pergole con teli retrattili) possono anch’esse essere installate senza permesso, a patto che non modifichino le superfici o i volumi dell’immobile e che siano in linea con l’estetica dell’edificio.
Queste modifiche rispondono all’esigenza di semplificare gli interventi di miglioramento energetico e di protezione degli immobili, permettendo ai proprietari di agire con maggiore libertà e rapidità, senza dover affrontare complessi iter burocratici.
Decreto Salva Casa: nuove regole sullo stato legittimo degli immobili (art. 9-bis DPR 380/2001)
Una delle innovazioni più rilevanti introdotte dal Decreto Salva Casa riguarda la definizione e la dimostrazione dello stato legittimo degli immobili, oggetto dell’art. 9-bis del DPR 380/2001. Le modifiche mirano a risolvere le difficoltà legate alla ricostruzione della conformità edilizia, semplificando la documentazione necessaria e, di conseguenza, agevolando la regolarizzazione degli immobili, soprattutto in occasione di compravendite o interventi di riqualificazione.
In base alle nuove disposizioni, lo stato legittimo di un immobile può essere dimostrato non solo attraverso il titolo abilitativo originario che ne ha autorizzato la costruzione, ma anche tramite l’ultimo titolo edilizio che ha riguardato l’immobile o l’unità immobiliare. Questo elimina l’obbligo di ricostruire la storia edilizia completa dell’edificio, consentendo di fare affidamento sull’ultimo intervento autorizzato. Inoltre, le modifiche chiariscono che, nei casi in cui il titolo abilitativo sia stato già oggetto di verifiche da parte della pubblica amministrazione, non è necessaria una nuova verifica da parte del proprietario o del richiedente, semplificando ulteriormente le procedure.
Un aspetto significativo di questa riforma è la possibilità di considerare regolarizzati anche quegli immobili per i quali è stata presentata una sanatoria edilizia, inclusi gli interventi per i quali è stata pagata una sanzione pecuniaria. Le nuove regole comprendono, tra i titoli legittimanti, anche quelli ottenuti attraverso procedimenti di conformità in sanatoria, ampliando così le possibilità di regolarizzare situazioni che in passato avrebbero potuto creare ostacoli alla commerciabilità dell’immobile.
Inoltre, per gli immobili costruiti in epoche in cui non era necessario un titolo abilitativo edilizio, è possibile fare riferimento alle informazioni catastali di primo impianto o ad altre fonti documentali, quali fotografie, documenti d’archivio o atti privati, integrati eventualmente con i titoli successivi. In questo modo, il decreto riconosce la difficoltà di reperire documentazione storica completa e offre soluzioni pratiche per dimostrare lo stato legittimo, rendendo più agevole la regolarizzazione di immobili di vecchia data.
Decreto Salva Casa: facilitazioni nei cambi di destinazione d’uso (art. 23-ter DPR 380/2001)
Il Decreto Salva Casa introduce anche importanti modifiche all’art. 23-ter del DPR 380/2001, con l’obiettivo di semplificare i cambi di destinazione d’uso degli immobili, riducendo i vincoli burocratici e ampliando le possibilità di riconversione funzionale. La nuova disciplina consente di effettuare cambi d’uso anche in assenza di opere edilizie, a condizione che tali modifiche non incidano sulle categorie urbanistiche principali.
Secondo le nuove regole del Salva Casa, il cambio di destinazione d’uso di un immobile viene considerato rilevante dal punto di vista urbanistico solo se comporta il passaggio da una categoria funzionale all’altra, come ad esempio da residenziale a turistico-ricettiva, produttiva o commerciale. Questo significa che le modifiche all’interno della stessa categoria funzionale, come il passaggio da abitazione a studio professionale, non richiedono l’ottenimento di un nuovo permesso e possono essere realizzate in regime di edilizia libera, a condizione che siano rispettate le normative di settore e le disposizioni comunali. Ciò rappresenta una significativa semplificazione, che rende più rapido e meno oneroso il processo di riconversione funzionale degli immobili, soprattutto nelle aree urbane.
Per i cambi di destinazione d’uso che comportano il passaggio tra diverse categorie funzionali, il decreto Salva Casa prevede comunque una maggiore flessibilità, consentendo tali modifiche senza la necessità di reperire ulteriori aree per standard urbanistici, come parcheggi o spazi pubblici. In questo modo, i proprietari immobiliari possono riconvertire immobili situati in zone urbane, come quelle classificate A, B o C secondo il DM 1444/1968, senza dover affrontare gli oneri aggiuntivi tipicamente richiesti dalle normative urbanistiche. Il tutto, ovviamente, nel rispetto delle condizioni previste dai piani urbanistici comunali, che possono imporre restrizioni specifiche.
Questa riforma del Salva Casa si inserisce in un quadro normativo che cerca di incentivare la riconversione degli immobili dismessi o inutilizzati, promuovendo interventi di rigenerazione urbana e facilitando il riuso di edifici per soddisfare nuove esigenze economiche e sociali. Il cambiamento di destinazione d’uso, infatti, rappresenta uno strumento fondamentale per adattare il patrimonio immobiliare esistente alle mutevoli necessità del mercato e dei territori.
Decreto Salva Casa: nuove soglie di tolleranza per le difformità costruttive e accertamento di conformità
Il Decreto Salva Casa introduce significative modifiche all’art. 34-bis del DPR 380/2001, ampliando e precisando il regime delle tolleranze costruttive. Tali modifiche sono volte a semplificare la gestione delle piccole difformità rispetto ai progetti approvati, riducendo gli ostacoli normativi per i proprietari immobiliari che si trovano ad affrontare irregolarità minime nelle opere realizzate.
La nuova disciplina stabilisce che le tolleranze costruttive ordinarie, già previste in misura del due per cento per gli scostamenti relativi a cubatura, altezza, distacchi e superficie coperta, restano valide per tutti gli immobili. Tuttavia, il decreto introduce soglie di tolleranza differenziate in base alla superficie utile dell’immobile, applicabili agli interventi eseguiti entro il 24 maggio 2024. Tali nuove soglie consentono maggiore flessibilità per gli edifici di dimensioni ridotte, prevedendo tolleranze fino al cinque per cento per le unità immobiliari più piccole. Questo rappresenta un passo avanti significativo nella regolamentazione delle piccole difformità, permettendo la regolarizzazione di interventi che, pur non perfettamente conformi al progetto autorizzato, non incidono in maniera sostanziale sulle caratteristiche edilizie dell’immobile.
Oltre alle tolleranze costruttive, il decreto Salva Casa prevede anche specifiche tolleranze esecutive, applicabili agli errori materiali o difformità di carattere tecnico che si verificano durante l’esecuzione delle opere. In questi casi, le irregolarità, purché non pregiudichino l’agibilità o la sicurezza dell’immobile, non costituiscono violazioni edilizie e non richiedono ulteriori autorizzazioni per la regolarizzazione.
Tale quadro normativo permette una gestione più agevole delle piccole difformità edilizie, riducendo il rischio di sanzioni e facilitando il processo di regolarizzazione delle proprietà, contribuendo così alla valorizzazione del patrimonio immobiliare esistente.
Il Decreto Salva Casa introduce, inoltre, l’accertamento di conformità per le opere edilizie realizzate in difformità parziale dal titolo abilitativo. Il nuovo art. 36-bis introduce una procedura semplificata per la regolarizzazione delle difformità che non alterano in modo sostanziale l’opera originaria, superando in parte l’obbligo della doppia conformità previsto dall’art. 36 del DPR 380/2001.
In particolare, mentre l’art. 36 mantiene il requisito della conformità sia alle norme urbanistiche ed edilizie vigenti al momento della realizzazione delle opere sia a quelle in vigore al momento della domanda di sanatoria, l’art. 36-bis introduce una significativa deroga per le difformità parziali. Per queste ultime, infatti, è sufficiente che l’opera sia conforme alla normativa urbanistica vigente al momento della presentazione della domanda di sanatoria, senza la necessità di verificare la conformità alle norme vigenti al tempo della realizzazione dell’opera. Questo cambiamento ha un impatto rilevante sulla regolarizzazione edilizia, poiché semplifica notevolmente il processo per i proprietari immobiliari, eliminando uno degli ostacoli principali legati alla doppia conformità.
Inoltre, il nuovo accertamento di conformità prevede l’obbligo, per il richiedente, di presentare una dichiarazione di conformità da parte di un tecnico abilitato, che attesti la conformità delle opere eseguite alle norme urbanistiche ed edilizie attuali. In alcuni casi, le autorità possono subordinare il rilascio della sanatoria all’esecuzione di interventi correttivi per garantire la sicurezza e l’efficienza dell’edificio. In termini di sanzioni, la procedura prevede il pagamento di una somma proporzionale all’aumento del valore venale dell’immobile derivante dalle opere realizzate, una misura pensata per bilanciare la necessità di regolarizzazione con la tutela del bene pubblico.
L’introduzione di questa procedura rappresenta un’innovazione importante, poiché consente ai proprietari di sanare difformità che, pur essendo irregolari, non comportano gravi violazioni edilizie o urbanistiche. La maggiore flessibilità del nuovo accertamento di conformità, unita alla semplificazione delle procedure, offre un’occasione preziosa per la regolarizzazione degli immobili, favorendo al contempo una gestione più efficiente delle risorse urbanistiche e il miglioramento del patrimonio edilizio esistente.
Decreto Salva Casa: alienazione degli immobili abusivi: regole più stringenti (modifica art. 31 DPR 380/2001)
Un ulteriore intervento significativo introdotto dal Decreto Salva Casa riguarda la disciplina dell’alienazione degli immobili abusivi, modificando l’art. 31 del DPR 380/2001. La normativa prevede ora regole più stringenti per la vendita o il trasferimento di immobili che presentano irregolarità edilizie. In particolare, viene ribadito il principio secondo cui non è possibile alienare un immobile abusivo a meno che non sia stato precedentemente regolarizzato tramite sanatoria. Questo divieto di alienazione rappresenta una garanzia per il mercato immobiliare, assicurando che gli immobili trasferiti siano in regola con le normative edilizie e urbanistiche vigenti.
Il Decreto Salva Casa chiarisce che, in caso di trasferimento di un immobile irregolare, è obbligatorio presentare la documentazione che attesti la conformità edilizia. Il ruolo del notaio, in questo contesto, diventa cruciale: egli deve verificare la presenza di tale documentazione prima di procedere con l’atto di vendita o di trasferimento di proprietà. In mancanza della conformità edilizia, l’atto di trasferimento potrebbe essere dichiarato nullo, con conseguenze giuridiche rilevanti sia per il venditore che per l’acquirente.
Le nuove disposizioni non solo tutelano gli acquirenti, ma incentivano anche i proprietari a regolarizzare preventivamente gli immobili prima di metterli in vendita. Inoltre, la normativa prevede sanzioni nei confronti di coloro che cercano di alienare immobili abusivi senza aver provveduto alla loro regolarizzazione, rafforzando ulteriormente il regime di conformità e trasparenza nel mercato immobiliare. Tali misure si inseriscono in una strategia più ampia di tutela del patrimonio edilizio e del corretto sviluppo urbanistico, incentivando comportamenti virtuosi da parte dei proprietari immobiliari.
Conclusioni sul Decreto Salva Casa
Le numerose novità introdotte dal Decreto Salva Casa offrono senza dubbio opportunità significative per i proprietari immobiliari e per i professionisti del settore edilizio, ma allo stesso tempo richiedono una conoscenza approfondita delle normative e delle procedure applicabili. Le semplificazioni apportate dalla riforma, pur essendo concepite per facilitare la regolarizzazione e la gestione degli immobili, impongono una scrupolosa attenzione agli aspetti tecnici e giuridici, al fine di evitare errori che potrebbero avere conseguenze rilevanti, sia in termini di sanzioni sia di commerciabilità degli immobili.
In un contesto normativo così articolato, il nostro studio legale offre un servizio di consulenza specializzata in diritto civile e amministrativo, con particolare attenzione al settore dell’urbanistica e dell’edilizia. Assistiamo i nostri clienti nella gestione delle pratiche di sanatoria, nell’interpretazione delle norme relative alle tolleranze costruttive e alle difformità parziali, e nella regolarizzazione degli immobili ai fini della compravendita. La nostra competenza sul Salva Casa ci consente di supportare i proprietari immobiliari, le imprese e i professionisti del settore nell’adozione delle soluzioni più adeguate per affrontare le sfide normative.
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da Redazione | Set 25, 2024 | Diritto civile, Diritto d'Impresa
I patti parasociali rappresentano uno strumento di regolazione fondamentale nelle dinamiche societarie, particolarmente rilevante nel contesto delle start-up. Queste ultime sono caratterizzate da una fase iniziale di grande incertezza e dinamicità, in cui i rapporti tra i soci e gli investitori devono essere stabilizzati attraverso strumenti giuridici flessibili, che consentano di risolvere ex ante potenziali conflitti e di preservare la stabilità della governance.
Nel presente articolo si approfondirà la natura dei patti parasociali, la loro disciplina giuridica, i limiti e le cause di nullità, e l’importanza che rivestono per le start-up, evidenziandone il ruolo cruciale nella strutturazione dell’impresa e nella gestione dei rapporti tra i soci.
I patti parasociali: definizione e disciplina normativa
I patti parasociali sono accordi negoziali tra i soci di una società (o tra i soci e terzi), stipulati con lo scopo di regolare specifici aspetti della vita societaria, spesso in deroga o integrazione rispetto alle norme statutarie o legislative. Essi rappresentano una manifestazione dell’autonomia contrattuale dei soci, consentendo di disciplinare materie che lo statuto potrebbe non trattare in maniera dettagliata o che richiedono flessibilità nell’interpretazione delle regole societarie.
A differenza dello statuto o degli atti costitutivi, che disciplinano in modo formale e pubblico l’organizzazione e il funzionamento della società, i patti parasociali sono accordi privati, vincolanti esclusivamente per i soci contraenti e non per la società o per i soci non firmatari. La natura privatistica di questi accordi rende i patti parasociali particolarmente adatti a governare dinamiche interne specifiche, come il coordinamento del voto in assemblea, la nomina degli amministratori, la distribuzione degli utili o la regolazione della cessione delle partecipazioni sociali.
A livello normativo, i patti parasociali trovano la loro disciplina principale negli artt. 2341-bis e 2341-ter del Codice Civile, che si riferiscono specificamente alle società per azioni. L’articolo 2341-bis prevede che la durata dei patti parasociali non possa superare i cinque anni, salvo diversa pattuizione. Qualora i patti siano stipulati senza indicazione di una durata, essi si intendono automaticamente vincolanti per il termine di cinque anni, e la loro proroga deve essere esplicitamente concordata tra le parti contraenti. La proroga tacita non è ammessa, al fine di evitare vincoli perpetui che potrebbero compromettere la libertà contrattuale dei soci.
È importante sottolineare che, sebbene i patti parasociali non siano soggetti a pubblicità obbligatoria nelle società non quotate, nelle società quotate i patti devono essere resi pubblici e comunicati alla Consob, ai sensi dell’art. 122 del Testo Unico della Finanza (TUF). In mancanza di tale pubblicità, i patti parasociali perdono efficacia e non sono opponibili ai terzi.
Limiti ai patti parasociali e cause di nullità o invalidità
Sebbene i patti parasociali costituiscano una manifestazione dell’autonomia contrattuale dei soci, la loro stipulazione non è priva di limiti. I patti, infatti, non possono violare norme imperative o l’interesse generale della società, pena la loro nullità o invalidità. Tra i principali limiti ai patti parasociali, possiamo individuare, ad esempio, la durata eccessiva: il Codice Civile impone un limite massimo di cinque anni per i patti parasociali nelle società per azioni, salvo diversa pattuizione. Una durata superiore a cinque anni senza consenso esplicito delle parti o una proroga tacita renderebbe nullo l’accordo, poiché violerebbe le disposizioni imperative. Questo limite temporale mira a evitare vincoli contrattuali eccessivi che potrebbero comprimere la libertà contrattuale dei soci a lungo termine.
Inoltre, i patti parasociali non possono violare norme imperative dell’ordinamento giuridico. Ad esempio, non possono essere stipulati accordi che violino le regole sulla governance societaria previste dal Codice Civile, come la libertà di voto nelle assemblee o il diritto alla distribuzione degli utili secondo le quote di partecipazione. In tali casi, il patto potrebbe essere dichiarato nullo ai sensi dell’art. 1418 c.c.
In altri casi, sono stati ritenuti invalidi i patti che pregiudicano l’interesse generale della società. Un esempio è dato dai patti che limitano eccessivamente l’autonomia decisionale degli amministratori o che impediscono lo svolgimento di operazioni necessarie alla crescita o alla sopravvivenza della società. I patti che compromettono la funzionalità degli organi sociali o che paralizzano le decisioni strategiche vitali della società sono considerati contrari all’interesse sociale e, di conseguenza, nulli.
Inoltre, stando alla giurisprudenza prevalente, gli accordi parasociali devono rispettare il principio di parità di trattamento tra i soci, garantendo che tutti godano degli stessi diritti e doveri in proporzione alle loro partecipazioni. Patti che discriminano alcuni soci a favore di altri, senza una giustificazione legittima, sono considerati contrari al principio di uguaglianza e possono essere dichiarati nulli.
L’importanza dei patti parasociali nelle start-up
Nelle start-up innovative, la proprietà intellettuale (brevetti, software, marchi) e il know-how tecnico rappresentano spesso gli asset più preziosi, fondamentali per il vantaggio competitivo dell’impresa. I patti parasociali possono includere clausole volte a proteggere questi beni immateriali, assicurando che non vengano utilizzati impropriamente o sfruttati dai soci al di fuori del contesto societario.
In questo senso, le clausole di non concorrenza e non divulgazione (NDA) diventano cruciali: esse possono prevedere, ad esempio, che i soci fondatori non possano avviare attività concorrenti o che siano tenuti a mantenere riservate le informazioni aziendali sensibili, garantendo così che la proprietà intellettuale rimanga protetta anche in caso di uscita di uno dei soci.
Inoltre, nelle start-up è comune la necessità di gestire con attenzione le exit strategy. I patti parasociali permettono di disciplinare in modo dettagliato le modalità con cui i soci possono cedere le proprie partecipazioni o come la società stessa possa essere venduta a terzi.
Vi sono, per citare alcuni esempi, clausole come il drag-along, che consente al socio di maggioranza di obbligare i soci di minoranza a vendere le loro partecipazioni a un potenziale acquirente; oppure il tag-along, che garantisce ai soci di minoranza il diritto di partecipare alla vendita alle stesse condizioni del socio di maggioranza, sono strumenti fondamentali per assicurare trasparenza e equilibrio nelle operazioni di cessione, prevenendo situazioni conflittuali e proteggendo gli interessi di tutte le parti coinvolte.
Infine, un ulteriore aspetto rilevante riguarda la gestione dei conflitti e la prevenzione dello stallo decisionale, una questione particolarmente critica nelle start-up, dove i fondatori spesso hanno visioni divergenti su come guidare la crescita dell’impresa. I patti parasociali possono includere meccanismi di risoluzione delle controversie, come l’arbitrato o la mediazione, che offrono soluzioni rapide e meno costose rispetto al contenzioso giudiziale. Inoltre, possono prevedere sistemi per evitare lo stallo decisionale, come l’adozione di clausole che richiedano maggioranze qualificate per decisioni strategiche o meccanismi di risoluzione forzata dei conflitti.
In definitiva, i patti parasociali si rivelano strumenti essenziali per le start-up, in quanto permettono di governare in modo efficace le relazioni tra i soci, preservando la stabilità della governance e favorendo la crescita armoniosa della società. Essi fungono da rete di protezione per affrontare eventuali conflitti futuri e per garantire che le decisioni critiche vengano prese nel rispetto degli interessi comuni, senza compromettere la flessibilità e l’agilità che sono caratteristiche distintive delle imprese in fase di avvio.
Start-up, cessione di equity e partecipazione attiva nella società
I patti parasociali rivestono un ruolo cruciale nelle start-up non solo per regolamentare i rapporti tra soci, ma anche per assicurare che chi riceve quote di equity giustifichi il proprio coinvolgimento attraverso un contributo lavorativo concreto e continuativo.
In una start-up, spesso i soci fondatori, oltre a investire capitale, offrono le proprie competenze operative, tecnologiche o manageriali, essenziali per il successo dell’impresa. Tuttavia, l’attribuzione di equity non dovrebbe mai essere considerata un “premio” fine a sé stesso, ma piuttosto un incentivo che richiede una costante partecipazione attiva allo sviluppo del progetto.
Attraverso i patti parasociali, è possibile stabilire obblighi specifici per i soci che ricevono quote di capitale. Questi accordi possono includere clausole che vincolano il socio a determinati compiti o obiettivi, legando il mantenimento delle quote al raggiungimento di performance lavorative o all’effettivo impegno nella gestione dell’impresa. Tale struttura non solo motiva i soci a lavorare efficacemente per la crescita della start-up, ma assicura anche che l’equity distribuita sia legata a un apporto reale e misurabile.
Inoltre, i patti parasociali possono prevedere meccanismi di c.d. “vesting”, in cui le quote vengono acquisite progressivamente nel tempo, in modo da incentivare i soci a rimanere impegnati a lungo termine nel progetto. Se un socio decidesse di abbandonare l’impresa o non rispettasse i propri impegni, i patti possono stabilire la restituzione delle partecipazioni o la riduzione del loro valore, proteggendo così la società da una distribuzione ingiustificata di capitale.
In sintesi, i patti parasociali nelle start-up sono fondamentali per garantire che l’equity sia non solo una ricompensa, ma uno strumento di responsabilità, legato alla dedizione lavorativa e al contributo reale che ogni socio apporta alla crescita dell’impresa.
Conclusioni in punto di patti parasociali
In conclusione, i patti parasociali rappresentano un pilastro fondamentale nella regolamentazione delle dinamiche interne di una società, soprattutto nel contesto delle start-up. La loro capacità di adattarsi alle specifiche esigenze dei soci e di integrare la disciplina prevista dallo statuto consente di gestire con maggiore precisione e flessibilità i rapporti tra i soci fondatori e gli investitori, assicurando al tempo stesso una governance solida e trasparente. Se utilizzati correttamente, i patti parasociali possono prevenire conflitti, proteggere gli asset strategici della società, e garantire una gestione equilibrata delle partecipazioni e delle decisioni societarie più importanti.
Tuttavia, è essenziale che tali accordi vengano redatti con attenzione, nel rispetto dei limiti imposti dalla legge e dalla prassi giurisprudenziale. La presenza di clausole che violano norme imperative, ledano l’interesse della società o pregiudichino i diritti dei soci non firmatari potrebbe condurre alla nullità o all’invalidità dei patti, compromettendo l’equilibrio societario. Di conseguenza, è sempre consigliabile che i patti parasociali siano redatti con l’assistenza di professionisti legali competenti, in modo da garantire la conformità normativa e la tutela degli interessi di tutte le parti coinvolte.
Exit strategy e acquisto di quote societarie – Assistenza legale dello Studio D’Agostino – Roma
da Redazione | Set 24, 2024 | Diritto civile, Diritto d'Impresa
Il commercio elettronico, o e-commerce, è oggi uno dei settori più dinamici e in rapida crescita nell’economia globale del digital business. Con la diffusione di internet e delle tecnologie digitali, sempre più imprese scelgono di aprire siti web o marketplace per vendere i propri prodotti o servizi online. Tuttavia, avviare e gestire un’attività di e-commerce richiede la scrupolosa osservanza di normative nazionali e comunitarie che regolano questo settore. Il commercio elettronico è, infatti, un ambito estremamente regolamentato, poiché implica questioni di protezione del consumatore, gestione dei dati personali, sicurezza delle transazioni e tutela della concorrenza.
In particolare, a livello dell’Unione Europea, esistono diverse normative che disciplinano l’e-commerce, come la Direttiva sul commercio elettronico (2000/31/CE), la Direttiva sui diritti dei consumatori (2011/83/UE) e, più recentemente, il Digital Services Act (DSA), che introduce nuovi obblighi per le piattaforme digitali, inclusi i marketplace.
Per i gestori di siti di e-commerce, adeguarsi a queste normative è fondamentale non solo per evitare sanzioni, ma anche per garantire una concorrenza leale e una maggiore fiducia da parte dei consumatori. Questo articolo fornisce una panoramica approfondita delle principali normative che regolano l’e-commerce, con un focus specifico sulle novità introdotte dal DSA e sugli obblighi previsti dal Codice del consumo italiano.
La direttiva sul commercio elettronico e sulla protezione dei consumatori
La Direttiva 2000/31/CE è uno dei principali strumenti normativi dell’Unione Europea in materia di commercio elettronico. Essa si applica a tutti i fornitori di servizi della società dell’informazione, e ha come obiettivo la creazione di un quadro giuridico armonizzato che favorisca lo sviluppo del mercato interno. La direttiva disciplina aspetti chiave legati alla prestazione di servizi online, garantendo trasparenza e fiducia nelle transazioni digitali.
Uno degli aspetti centrali della direttiva riguarda la conclusione dei contratti di e-commerce, ovvero i cosiddetti “contratti a distanza”. I fornitori di servizi sono obbligati a fornire informazioni dettagliate e accessibili ai consumatori, inclusi i dettagli sull’identità del venditore, il prezzo complessivo, le caratteristiche principali del prodotto o servizio, e i costi di spedizione. Inoltre, devono garantire che il consumatore riceva una conferma tempestiva del contratto una volta che l’ordine è stato inviato. Tale conferma può essere fornita tramite e-mail o un altro mezzo elettronico equivalente.
La direttiva stabilisce, inoltre, che i contratti elettronici abbiano piena validità giuridica, purché rispettino i requisiti di trasparenza e informazione previsti dalla normativa. Per garantire la sicurezza nelle transazioni online, i fornitori di servizi devono implementare meccanismi che consentano al consumatore di correggere eventuali errori prima della conclusione del contratto.
Successivamente, la Direttiva 2011/83/UE sui diritti dei consumatori è intervenuta per regolamentare i contratti a distanza. Questa direttiva rafforza la tutela dei consumatori nell’e-commerce, introducendo il diritto di recesso, che consente al consumatore di annullare l’acquisto entro 14 giorni dalla ricezione del bene o dalla conclusione del contratto, senza dover fornire alcuna motivazione. Il venditore è obbligato a informare chiaramente il consumatore di tale diritto e a rimborsare tutti i pagamenti, inclusi i costi di spedizione, entro 14 giorni dal ricevimento della comunicazione di recesso. Qualora il venditore non fornisca le informazioni necessarie sul diritto di recesso, il periodo per esercitare tale diritto può estendersi fino a 12 mesi.
Entrambe le direttive mirano a garantire un elevato livello di protezione per i consumatori che effettuano acquisti online, favorendo la trasparenza e la fiducia nelle transazioni digitali. Tuttavia, con l’evoluzione delle tecnologie e l’aumento del commercio elettronico, si è reso necessario un aggiornamento delle normative per affrontare nuove sfide, come la contraffazione online, la trasparenza degli algoritmi e la responsabilità delle piattaforme digitali.
Le novità introdotte dal Digital Services Act: cosa cambia per l’e-commerce?
Il Digital Services Act (DSA), divenuto applicabile a partire dal mese di febbraio del 2024, rappresenta un pilastro della normativa comunitaria in materia di servizi digitali, inclusi i siti di e-commerce. Il DSA integra e modifica alcune delle disposizioni della Direttiva 2000/31/CE, mantenendo in vigore i principi fondamentali della responsabilità limitata per gli intermediari online, ma introducendo nuovi obblighi di diligenza e trasparenza.
Una delle novità più rilevanti riguarda l’obbligo per le piattaforme di e-commerce di garantire la tracciabilità dei venditori. In base al DSA, i marketplace devono raccogliere e verificare informazioni come l’identità legale, il numero di partita IVA e altre informazioni rilevanti prima di consentire ai venditori di offrire i propri prodotti o servizi. Questa misura mira a contrastare la vendita di beni contraffatti e illegali, migliorando la sicurezza per i consumatori. Inoltre, le piattaforme devono assicurarsi che queste informazioni siano facilmente accessibili ai consumatori, in modo che possano identificare chiaramente chi è il venditore e quali sono i loro diritti in caso di problemi con il prodotto o servizio acquistato.
Un altro aspetto cruciale del DSA è l’introduzione di obblighi di trasparenza sugli algoritmi utilizzati dalle piattaforme per raccomandare prodotti o servizi. I consumatori devono essere informati su come vengono selezionati i prodotti che vedono, e devono avere la possibilità di scegliere se accettare o meno la personalizzazione delle raccomandazioni basata sui loro dati personali. Questo aumenta la trasparenza e la fiducia nelle transazioni digitali, poiché i consumatori possono prendere decisioni più consapevoli riguardo ai prodotti da acquistare.
Il DSA introduce anche nuove misure per la gestione dei contenuti illegali e la protezione dei minori. Le piattaforme di e-commerce devono implementare sistemi efficaci per la segnalazione e la rimozione di contenuti o prodotti che violano la legge, come quelli che infrangono i diritti di proprietà intellettuale o che mettono in pericolo la sicurezza dei consumatori. Inoltre, le piattaforme che sono utilizzate prevalentemente da minori devono adottare misure aggiuntive per proteggere i giovani utenti, garantendo che non vengano esposti a contenuti inappropriati o pericolosi.
Infine, il DSA rafforza le disposizioni sulla trasparenza delle recensioni dei prodotti. Le piattaforme devono adottare misure per garantire che le recensioni pubblicate siano autentiche e provenienti da utenti reali, prevenendo così pratiche ingannevoli che potrebbero danneggiare i consumatori.
Le disposizioni del Codice del consumo sull’e-commerce
Il Codice del consumo italiano, disciplinato dal Decreto Legislativo n. 206/2005, rappresenta uno dei pilastri fondamentali della tutela dei consumatori in Italia, con particolare attenzione alla disciplina dei contratti a distanza, incluso il commercio elettronico. Questo corpus normativo, che recepisce molte delle disposizioni contenute nella Direttiva 2011/83/UE sui diritti dei consumatori, stabilisce una serie di obblighi a carico dei professionisti e dei venditori online al fine di garantire la trasparenza e la tutela dei diritti dei consumatori.
Una delle disposizioni centrali del Codice del consumo riguarda l’obbligo per il venditore di fornire al consumatore informazioni chiare, comprensibili e dettagliate prima della conclusione del contratto. Il legislatore ha posto particolare enfasi su questo aspetto al fine di garantire che il consumatore sia pienamente consapevole delle caratteristiche essenziali del prodotto o del servizio offerto, del prezzo totale, comprese tutte le imposte e i costi aggiuntivi, e delle modalità di consegna e pagamento. Inoltre, è previsto che il venditore fornisca informazioni precise sui tempi di consegna, sulla durata del contratto (nel caso di servizi) e sulle condizioni per l’esercizio del diritto di recesso.
Il diritto di recesso costituisce un altro importante elemento di protezione per il consumatore nei contratti a distanza. Il Codice del consumo stabilisce che il consumatore ha il diritto di recedere dal contratto entro 14 giorni dalla ricezione del bene, o dalla conclusione del contratto nel caso di servizi, senza dover fornire alcuna motivazione. Questo diritto, introdotto per garantire la sicurezza nelle transazioni a distanza, consente al consumatore di esaminare il bene o valutare il servizio prima di decidere definitivamente di mantenerlo. Una volta che il consumatore ha esercitato il recesso, il venditore è obbligato a rimborsare tutte le somme ricevute, inclusi i costi di consegna standard, entro 14 giorni dal ricevimento della notifica di recesso.
Oltre al diritto di recesso, il Codice del consumo affronta anche la questione delle clausole vessatorie nei contratti a distanza. Le clausole che comportano un significativo squilibrio tra i diritti e gli obblighi delle parti, a svantaggio del consumatore, sono considerate nulle e non vincolanti. Questo principio è essenziale per evitare che il venditore possa imporre condizioni inique o sproporzionate, come ad esempio limitazioni indebite al diritto del consumatore di far valere le proprie pretese o modifiche unilaterali del contratto.
In sintesi, il Codice del consumo italiano impone una serie di obblighi ai venditori online, con l’obiettivo di garantire trasparenza, equità e protezione per i consumatori. L’osservanza di tali disposizioni è fondamentale per i gestori di siti di e-commerce, poiché il mancato rispetto delle normative non solo comporta sanzioni amministrative, ma può anche avere ripercussioni significative sulla fiducia dei consumatori e sulla reputazione dell’impresa.
Conclusioni sulla conformità legale nell’ambito dell’e-commerce
In un contesto normativo in rapida evoluzione come quello dell’e-commerce, la compliance legale è diventata un fattore imprescindibile per il successo e la sostenibilità di un’attività online. Le norme europee, come la Direttiva 2000/31/CE, la Direttiva 2011/83/UE, il Digital Services Act e il Codice del consumo italiano, offrono un quadro completo e articolato per la tutela dei consumatori e la regolamentazione dei contratti a distanza.
Ignorare o sottovalutare l’importanza della conformità a queste normative può esporre i gestori di siti di e-commerce o marketplace a sanzioni significative. In particolare, le violazioni delle disposizioni del Digital Services Act possono comportare multe fino al 6% del fatturato annuo globale dell’impresa, rendendo estremamente rischioso operare senza una corretta gestione della conformità.
Per chi decide di avviare o gestire un’attività di e-commerce, è fondamentale comprendere che il rispetto delle normative non è solo un obbligo giuridico, ma anche una garanzia per la stabilità e la crescita del business. L’inosservanza delle norme può comportare sanzioni amministrative, ma può anche avere conseguenze molto più gravi in termini di perdita di reputazione e di fiducia da parte dei consumatori, elementi chiave per il successo di qualsiasi attività online.star
Il nostro Studio Legale, grazie alla sua esperienza nel settore, offre consulenza specializzata per le imprese che operano nel commercio elettronico, aiutandole a navigare nel complesso panorama normativo e a garantire la piena conformità alle leggi in vigore. L’assistenza di un professionista è essenziale per evitare errori che potrebbero risultare fatali per l’impresa, sia dal punto di vista legale che economico. Forniamo supporto completo, dalla redazione e verifica delle condizioni generali di vendita, alla gestione dei reclami dei consumatori, fino alla protezione dei dati e alla conformità con le normative in materia di proprietà intellettuale e diritto d’autore.
In un mercato sempre più competitivo e regolamentato, affidarsi a esperti del settore è la scelta più sicura per garantire il successo a lungo termine della propria attività di e-commerce.
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da Redazione | Set 21, 2024 | Diritto civile
Il contratto di rent to buy rappresenta una formula innovativa introdotta nell’ordinamento giuridico italiano con il D.L. 133/2014, convertito con modifiche dalla L. 164/2014. Questo strumento contrattuale combina aspetti della locazione e della compravendita, offrendo una soluzione flessibile sia per chi desidera acquistare un immobile, ma non dispone subito delle risorse economiche necessarie, sia per chi intende vendere, ma trova difficoltà a trovare immediati acquirenti.
L’obiettivo di questo breve articolo è quello di illustrare i principi giuridici che regolano il contratto di rent to buy e analizzarne la funzione economica, evidenziando i vantaggi e gli svantaggi che tale formula comporta per le parti coinvolte.
Nonostante la sua introduzione ormai risalga al 2014, il rent to buy ha registrato un utilizzo limitato, a causa di alcuni ostacoli pratici e di una scarsa diffusione di informazioni riguardo alla sua applicabilità. Tuttavia, riteniamo che questa tipologia contrattuale abbia un notevole potenziale, soprattutto in un contesto economico caratterizzato dalla difficoltà di accesso al credito immobiliare e dall’incertezza finanziaria. Con una più ampia conoscenza e una maggiore attenzione da parte di venditori e acquirenti, il rent to buy potrebbe diventare un’opzione negoziale da sperimentare con sempre maggiore frequenza, specie in particolari congiunture del mercato immobiliare.
Disciplina del rent to buy
Il rent to buy è disciplinato dall’articolo 23 del Decreto Legge 12 settembre 2014, n. 133 (convertito in legge dalla L. 164/2014), noto come “Decreto Sblocca Italia”. Tale norma ha introdotto la possibilità di stipulare contratti di locazione finalizzati alla successiva alienazione di immobili, che, in sostanza, permettono di godere immediatamente di un immobile con la facoltà di acquistarlo entro un termine convenuto. Il contratto in esame non deve essere confuso con un semplice accordo di locazione con opzione di acquisto, poiché la struttura del rent to buy implica la trascrizione nei registri immobiliari ai sensi dell’art. 2645-bis c.c.
Tale trascrizione offre un’importante tutela al conduttore, che può così essere garantito contro eventuali azioni di pignoramento o ipoteca che potrebbero gravare sull’immobile dopo la stipula del contratto.
La legge prevede che il contratto di rent to buy debba essere redatto in forma scritta a pena di nullità e che la trascrizione nei registri immobiliari abbia effetti per un periodo massimo di dieci anni. Durante questo lasso di tempo, il conduttore ha la possibilità di esercitare il diritto di acquisto dell’immobile, imputando al prezzo finale una parte dei canoni versati.
Nel caso in cui non si pervenga alla vendita, il contratto si risolve, con il conseguente obbligo del concedente di restituire le somme versate come acconto sul prezzo, mentre la parte dei canoni destinata al godimento dell’immobile rimane acquisita dal concedente. Dal punto di vista fiscale, i canoni percepiti dal locatore sono trattati come redditi da locazione fino al momento del trasferimento della proprietà, mentre le somme imputate al prezzo di vendita sono soggette alle regole ordinarie in materia di cessione di immobili. Questa regolamentazione si propone di superare alcune problematiche tipiche dei contratti di locazione con opzione, garantendo un sistema più stabile e sicuro per entrambe le parti.
Vantaggi e svantaggi del rent to buy
Il rent to buy offre una serie di vantaggi sia per il proprietario che per il conduttore, ma non va esente da svantaggi, che potrebbero incidere sull’effettiva convenienza dell’operazione complessiva.
Per il proprietario/venditore, il primo vantaggio risiede nella possibilità di trovare un numero maggiore di potenziali acquirenti, specialmente in contesti di mercato difficili, dove molte persone non riescono ad accedere immediatamente al credito per l’acquisto di un immobile. Il venditore, inoltre, mantiene la proprietà dell’immobile fino alla conclusione dell’operazione, e durante il periodo di godimento riceve un canone che, essendo più elevato rispetto a una locazione tradizionale, gli permette di compensare i costi di gestione dell’immobile.
Tuttavia, tra gli svantaggi, vi è il rischio che il conduttore, alla fine del periodo stabilito, decida di non acquistare l’immobile, lasciando il proprietario nella posizione di dover cercare un nuovo acquirente e di dover restituire parte dei canoni (nella misura imputata alla vendita).
Dal punto di vista del conduttore/acquirente, il rent to buy offre il grande vantaggio di poter entrare subito in possesso dell’immobile, senza dover affrontare immediatamente le difficoltà legate all’ottenimento di un mutuo o alla disponibilità dell’intero prezzo di acquisto. Questo consente al conduttore di pianificare con maggiore tranquillità l’acquisto dell’immobile, accumulando nel frattempo un capitale che verrà imputato al prezzo finale.
Un ulteriore vantaggio per il conduttore è rappresentato dalla tutela giuridica che la trascrizione del contratto nei registri immobiliari gli garantisce, proteggendolo da eventuali azioni di terzi sul bene. Tuttavia, vi sono anche svantaggi: il principale è rappresentato dal fatto che una parte del canone, quella imputata al godimento dell’immobile, viene “persa” come in un normale affitto, nel caso in cui alla fine del contratto il conduttore decidesse di non acquistare. Tuttavia, la presenza di tassi di interesse elevati nel mercato monetario potrebbe giustificare comunque la convenienza economica del rent to buy dal lato dell’acquirente/conduttore, rendendolo potenzialmente più attraente rispetto ad altre forme di acquisto immobiliare.
Invero, il rincaro complessivo del costo del finanziamento porta i potenziali acquirenti a rimandare l’acquisto o a cercare alternative che consentano di dilazionare il pagamento senza accendere immediatamente un mutuo. In tal senso, il rent to buy, proprio perché permette al conduttore di posticipare l’acquisto, diventa una valida opzione, offrendo la possibilità di bloccare il prezzo dell’immobile e accumulare una parte del capitale necessario attraverso i canoni mensili.
Alla riscoperta del rent to buy: i pregi di una formula negoziale da incoraggiare
Nonostante i diversi ostacoli che ne hanno limitato la diffusione, il rent to buy rappresenta una formula negoziale che merita di essere riscoperta e incoraggiata. Le critiche rivolte a questo contratto si concentrano soprattutto sulla complessità gestionale e fiscale che comporta, con particolare riferimento alla necessità di una doppia contabilità per distinguere le quote imputate alla locazione e quelle imputate all’acquisto.
Inoltre, l’onerosità fiscale, unita alla mancanza di agevolazioni specifiche, ha contribuito a scoraggiarne l’utilizzo su larga scala. Anche la difficoltà nell’affrontare l’inadempimento del conduttore solleva preoccupazioni, poiché richiede comunque una procedura legale per la liberazione dell’immobile.
Tuttavia, è importante evidenziare che il rent to buy può essere una soluzione estremamente vantaggiosa in contesti particolari, ad esempio per chi non ha immediata disponibilità di capitale ma desidera comunque garantirsi la possibilità di acquistare un immobile in futuro. In un mercato immobiliare sempre più caratterizzato dalla difficoltà di accesso al credito e dalla volatilità economica, offrire una maggiore flessibilità a venditori e acquirenti potrebbe rivelarsi una chiave di successo per rilanciare questa formula contrattuale. Vieppiù, la trascrizione nei registri immobiliari garantisce una tutela importante per il conduttore, una sicurezza che difficilmente si ritrova in altre formule contrattuali simili.
In conclusione, il contratto in esame potrebbe rappresentare un’opportunità per rivitalizzare il mercato immobiliare e per offrire a una fascia più ampia della popolazione la possibilità di acquistare un immobile. Con una corretta impostazione dell’operazione e una buona consulenza legale, il rent to buy potrebbe diventare una soluzione sempre più adottata, trasformando un’alternativa poco conosciuta in una prassi diffusa e vantaggiosa.